Decisione della Cassazione. "Il limite dell’orario di lavoro deve coincidere con la tutela della salute, con un alleggerimento dell’onere probatorio in capo al lavoratore".
Da DottNet - Con l’ordinanza n. 6008 del 28.02.2023, la Cassazione afferma che nel momento in cui il lavoratore adduce la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità (c.d. superlavoro), deve provare esclusivamente detta circostanza per dimostrare un inesatto adempimento all'obbligo di sicurezza.
Il fatto
Il dipendente, medico ospedaliero, ricorre giudizialmente nei confronti del datore per chiederne la condanna al risarcimento del danno biologico conseguente all'infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell'organico che l'aveva costretto per molti anni a intollerabili ritmi e turni di lavoro. La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, rilevando, da un lato, la mancata prova delle circostanze dedotte da parte del ricorrente ed escludendo, dall’altro, la responsabilità dell'ASL datrice, tenuto conto che essa non aveva il potere di aumentare l'organico né di rifiutare ricoveri e prestazioni ai pazienti.
L’ordinanza
La Cassazione – nel ribaltare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che il dipendente che deduce di essere stato sottoposto ad un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, altro non fa che lamentare un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza. Per la sentenza, in presenza di dette circostanze, il lavoratore è, quindi, tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie per ritmi o quantità di produzione insostenibili, ovvero secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole). Secondo i Giudici di legittimità, spetta, invece, al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l'accaduto non imputabile a sé. Su tali presupposti, ritenendo il predetto onere correttamente assolto dal dipendente, la Suprema Corte accoglie il ricorso dal medesimo proposto.
Ecco nel dettaglio le ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia «Violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.)».
1.1. Oggetto di censura è, in particolare, l’affermazione del giudice a quo secondo cui la domanda del dott. P. non sarebbe stata accoglibile per la mancata indicazione della «specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza».
2. Con il secondo motivo si denuncia «ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione agli artt. 32, 35 e 41 Cost. nonché all’art. 15, comma 6, d.lgs. n. 502/92 (art. 360, n. 3, c.p.c.)».
2.1. Con questo mezzo il ricorrente contesta, da un lato, il giudizio della corte d’appello secondo cui all’ASL non sarebbe imputabile, a titolo di colpa, il mancato adeguamento dell’organico alle esigenze di servizio, dato il divieto legale di assumere altri dipendenti senza l’autorizzazione della Regione; dall’altro lato, l’affermazione secondo cui sarebbe stato lo stesso dott. P., in quanto dirigente medico, ad adottare i provvedimenti organizzativi determinanti le sue condizioni lavorative.
3. Con il terzo motivo si denuncia «Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 c.c., 41 e 42 c.p. in relazione all’art. 2087 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.)».
3.1. Viene qui censurato l’accertamento negativo, da parte della corte d’appello, del nesso causale tra il mancato esercizio del potere di proposta di ampliamento dell’organico e l’evento infartuale verificatosi. Il ricorrente rileva che il nesso causale che l’attore deve provare, ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno, è solo quello tra prestazioni di lavoro rese in condizioni nocive ed evento, mentre spetta al convenuto provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quindi, l’impossibilità di evitarlo.
4. I tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono fondati nei termini di seguito precisati.
4.1. La sentenza impugnata parte dalla corretta premessa che la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e che, di conseguenza, «incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo» (pag. 3 della sentenza impugnata, ove si riporta testualmente, per condividerla, la massima ricavata da Cass. n. 4840/2006). Altrettanto corretta è l’affermazione – anch’essa tratta da un precedente di legittimità (Cass. n. 8855/2013) – secondo cui «la disposizione di cui all’art. 2087 c.c. si qualifica alla stregua di norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all’imprenditore l’obbligo di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti con l’adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell’ambiente o in circostanza di lavoro anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica, giustificandosi l’interpretazione estensiva della cennata norma sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia per il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro» (ivi).
4.2. Sennonché, a tali corrette premesse il giudice a quo non ha dato seguito là dove, per respingere la domanda (e l’appello), ha affermato che «l’appellante non ha fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, che siano in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo, e di normale adozione nel settore» e che «non risulta neanche dedotta dall’appellante la specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza» (pag. 4 della sentenza impugnata). In realtà, ciò che il ricorrente ha allegato – e che anche la corte d’appello risulta avere dato per pacifico – è di essere stato sottoposto per molti anni a un superlavoro, ovverosia a turni ed orari particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della normalità.
4.3. Ebbene, questa Corte ha avuto recentemente occasione di affermare, in un caso del tutto analogo al presente, alcuni principi di diritto cui va qui data continuità: «il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile»; «oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 25 luglio 2022, n. 23187), ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche» (Cass. n. 34968/2022). La corte d’appello ha dunque errato nel pretendere dall’attore (e appellante) l’indicazione di «ben determinate norme di sicurezza», essendo idonea e sufficiente a dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro l’allegazione (e la prova) dello svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo.
4.4. Errato è poi l’inserimento del tema della mancanza di autonomia della ASL nella decisione di assumere altro personale medico nell’ambito della motivazione sul mancato assolvimento degli oneri di allegazione e di prova gravanti sull’attore. Si tratta, infatti, di circostanza che potrebbe eventualmente rilevare quale «diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile», ovverosia di un aspetto che ricade nell’ambito dell’onere della prova liberatoria gravante sul datore di lavoro convenuto, una volta che il lavoratore abbia provato la nocività delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e il nesso causale tra quest’ultima e l’evento dannoso. In tale ottica, ovverosia nell’ambito dell’accertamento sull’allegazione del datore di lavoro di avere fatto «tutto il possibile per evitare il danno», il giudice di merito avrebbe dovuto valutare i limiti all’autonomia dell’ASL nella decisione di assumere altro personale medico, unitamente a tutte le altre circostanze di fatto rilevanti, ivi compreso il ruolo dirigenziale del ricorrente all’interno dell’ASL; fermo restando che il prudente apprezzamento delle prove disponibili non è di per sé sindacabile in questa sede di legittimità.
5. Il quarto motivo è così rubricato: «Omessa pronuncia (art. 360, n. 4, c.p.c.). Violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 116 c.p.c. (art. 360, n. 4, c.p.c.)».
5.1. Si censura la parte della sentenza impugnata in cui si afferma che «in atti non vi sia prova sufficiente della sussistenza del necessario rapporto di causalità tra l’attività lavorativa espletata e l’evento infartuale» (pag. 6 della sentenza impugnata). Sostiene, in particolare, il ricorrente che, soprattutto in considerazione del fatto che egli aveva ottenuto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio ai fini della relativa indennità, il rapporto causale non avrebbe potuto essere negato in assenza di un’apposita consulenza tecnica, di cui egli aveva chiesto, sia pure in via subordinata, l’ammissione.
6.1. Connesso al quarto è, infine, il quinto motivo, con cui il ricorrente denuncia «Violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 61, 112 e 116 c.p.c. (art. 360, n. 4, c.p.c.)».
6.1. Oggetto di censura è in questo caso l’affermazione della corte d’appello secondo cui l’appellante non avrebbe «allegato, né tanto meno provato, quali concreti svantaggi, privazioni ed ostacoli sono derivati dalla menomazione denunciata» e che a tale carenza non «sembra potersi supplire attraverso un accertamento medico-legale …, atteso che la consulenza tecnica d’ufficio costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti e la cui interpretazione richieda nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire alla carenza probatoria della domanda» (pag. 6 della sentenza impugnata).
7. Anche questi motivi sono sostanzialmente fondati.
7.1. Sul piano logico, è evidente che il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso (v. Cass. nn. 34968/2022 e 23187/2022). Il fatto che sia stata riconosciuta in sede amministrativa la causa di servizio ai fini dell’equo indennizzo e che sia stata prodotta in giudizio la relativa documentazione, se non vale come prova legale (vincolante per il giudice) del nesso causale, ben potrebbe essere prudentemente apprezzata, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., come prova sufficiente di quel nesso, in mancanza di elementi istruttori di segno contrario (Cass. n. 23187/2022). noltre, ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (Cass. n. 20889/18; conf. Cass. n. 17017/07; Cass. n. 4005/05). Infatti, l’autonomia dei due istituti (equo indennizzo e risarcimento del danno) non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia ai fini sia dell’equo indennizzo sia del risarcimento del danno biologico derivante dalla malattia. A ciò si aggiunga che non è consentito al giudice del merito – perché esula dai limiti del prudente apprezzamento del materiale istruttorio disponibile (art. 116 c.p.c.) – negare rilevanza probatoria alla documentazione tecnica sulla scorta della quale è stato riconosciuto il nesso causale in sede amministrativa, senza alcuna notazione critica circa il contenuto di quella documentazione.
7.2. Infine, giuridicamente errata è l’affermazione, nella sentenza impugnata, secondo cui il ricorrente avrebbe avuto l’onere di allegare «quali concreti svantaggi, privazioni ed ostacoli sono derivati dalla menomazione denunciata». Ai fini della condanna del responsabile al risarcimento del danno è infatti sufficiente l’allegazione dell’evento dannoso (infarto) e del conseguente danno alla salute, temporaneo e permanente, mentre l’allegazione di altri «concreti svantaggi» è necessaria soltanto ai fini della eventuale richiesta di personalizzazione del danno (v., ex multis, Cass. n. 5865/2021). E per l’accertamento dell’allegato danno alla salute, e della sua effettiva entità, può bene essere disposta una consulenza tecnica d’ufficio c.d. percipiente (che, a differenza di quella deducente, è mezzo di prova), in quanto volta alla diretta percezione di circostanze di fatto non altrimenti accertabili (v., con particolare riguardo alla consulenza medico-legale, Cass. n. 4792/2013).
8. Accolto il ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di L’Aquila, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente grado di legittimità.